di Giovanni Cutolo
A PROPOSITO DEL “LAVORO”
Perciò l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal
giardino d’Eden,
perché lavorasse la terra donde era stato
tratto.
(Genesi,
3, 23)
Intendo qui sommariamente ripercorrere
alcune delle vicissitudini dell’attività lavorativa e delle numerose
modificazioni semantiche che la parola “lavoro” ha conosciuto nel tempo,
soffermandomi in particolare su alcuni dei molti cambiamenti di significato che
questo termine ha conosciuto.
Molto spesso nei detti popolari, a
guardar bene,si nasconde la malcelata convenienza dei potenti, dei prepotenti e
di tutti coloro che detengono il potere. Nei proverbi e nei detti comuni la
gente crede di ritrovare l’antica saggezza del bel tempo antico ma, in effetti, essi
spesso sottendono e veicolano, surrettiziamente, la nietzschiana “volontà di
potenza”.Mentre invece, come per esempio nel celebre “Chi non lavora non
mangia”, si mette in circolazione una falsa credenza spacciandola per pillola di
saggezza,allo scopo di far circolare delle presunte verità, apparentemente
sempiterna. Verità che, come in questo esempio, è volta a indurre le genti a
credere- e pertanto a legittimare -lo sfruttamento di chi lavora– schiavi, servi
della gleba, contadini, braccianti, operai e lavoratori precari di ogni tipo.
*
L’articolo uno dell’attuale
Costituzione italiana in vigore dal 1946 sancisce che: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro”, malgrado stia diventando sempre più difficile poter garantire lavoro a
tutti i cittadini. La perentoria formulazione costituzionale rischia di far
apparire traballante e sempre meno credibile l’intera convenzione sulla quale
si fonda la nostra comunità nazionale.Ancora più preoccupante poi, il fatto che
la crescente mancanza di lavoro non è un problema solamente italiano, essendo
un fenomeno diffuso che riguarda un numero crescente di paesi, in Europa e in ogni
altro continente. Si tratta con evidenza di un fenomeno che è conseguenza della
mondializzazione produttiva, dell’affermazione del cosiddetto mercato globale, delle
numerose altre macro-trasformazioni in corso e,di recente,anche alla pandemia
causata dal Covid-19.
La rarefazione del lavoro è, e sempre di più sarà,
un fenomeno mondiale difficilmente governabile perché si manifesta in un mondo ancora
privo di un governo globale e perché le sue ragioni profonde sfuggono al
controllo e alla gestione degli stati nazionali. Cominciano ad apparire forme
diverse di sussistenza economica– in Italia è stato
introdotto il reddito di cittadinanza, in Danimarca vige il Kontanthjælp,in
Germania l’Arbeitslosengeld, nel
Regno Unito l’Income support, in Irlanda il Supplementary Welfare
Allowance. In Francia è in discussione il RUA-Reddito Universale di
Attività mentre la Finlandia va verso la sperimentazione di altre tipologie di
riforma del welfare.Interventi tutti che anticipano la fine dell’ormai inefficace e obsoleto principio del chi non
lavora non mangia,almeno per le fasce più povere e a rischio.L’assioma che,per
millenni e per la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta, ha unito fra
loro guadagno e lavoro è ormai in una fase di inarrestabile decadenza.Si
potrebbe considerare paradossale che la rarefazione della domanda di lavoro si
manifesti solo adesso mentre avrebbe potuto manifestarsi di già duecentocinquant’anni
fa, quando se ne crearono le condizioni grazie all’irrompere del lavoro delle
macchine in un mondo che, sino ad allora, aveva potuto contare soltanto sul
lavoro dell’uomo e degli animali.Ritengo che la cosiddetta
rivoluzione industriale avrebbe potuto e dovuto essere una rivoluzione di
liberazione sociale. Invece,purtroppo, non lo fu. Essa avrebbe potuto
affrancare, grazie all’uso delle macchine mosse dalle nuove fonti di energia,
gran parte degli uomini dalla schiavitù del lavoro, quello durissimo dei campi e
non solo quello. I nuovi mezzi di produzione finirono invece sotto il controllo
di un numero ristretto di uomini che si arricchirono come nessun agrario o
proprietario terriero era mai riuscito a fare. Tutti quelli – pensatori,
economisti, sociologi, religiosi, politici e financo imprenditori illuminati –
che tentarono di far prevalere un modello socio-economico diverso da quello che
sembra ormai prossimo al collasso, furono tacciati di essere degli utopisti e videro
fallire il loro tentativo di dare alla storia un corso più virtuoso.
*
Oggi, ancora una volta in maniera che può apparire paradossale,
quella mancata rivoluzione sembra poter finalmente avvenire per l’impossibilità
di garantire lavoro e guadagni a tutti, a causa (o in virtù?) dello sviluppo tecnologico
che ha aperto le porte della robotica, dell’Intelligenza Artificiale e dell’Ingegneria
Genetica. La riduzione della domanda di lavoro umanosta provocando la
conseguente drastica riduzione dei consumi di massa e con essi delle produzioni
di massa e quindi, a cascata, anche dei guadagni di coloro che controllano i
mezzi finanziari e posseggono i mezzi di produzione. Comprensibile e
prevedibile allora che, per evitare l’arresto e l’eventuale crollo dell’intero
sistema della cosiddetta economia liberale e capitalistica, i reggitori di
detto sistema abbiano cominciato a dar segni concreti di avere capito che
occorre intervenire al fine di garantire mezzi di sussistenza a chi non può più
avere la certezza di un lavoro. Con la riduzione e la conseguentede-sacralizzazione
del lavoro,potrebbe e dovrebbe terminare quella relazione che il lavoro ha
intrattenuto con il guadagno. Una relazione frequentemente deformata e
ricattatoria, almeno percome la abbiamo comunemente e troppo spesso conosciuta
e vissuta.Alla luce della conflittualità tra Nord e Sud presente sin dalla sua
fondazione nel nostro paese, vanno messe nel conto anche le prevedibili
conseguenze traumatiche per gli abitanti del settentrione, e in particolare per
quelli della Lombardia, che si vedrebbero privati della diffusa mitologia
regionale del lavoro e chetoglierebbe loro la possibilità di continuare a indirizzarsi
ai meridionali con l’allocuzione “và a lavurà, terrùn”.
*
Ritornando alle origini lontane del
lavoro e lasciandoci alle spalle le nebbiose dolcezze dell’operosa pianura
padana, il primo riferimento al lavoro che ho ritrovato è quello del libro
della Genesi, un testo a cavallo tra la Storia e il Mito, che si può far
risalire a tremila e cinquecento anni fa circa. In questo testo, il lavoro si
configura come la condanna che il creatore infligge ad Adamo ed Eva, colpevoli
di essersi macchiati del cosiddetto peccato originale. Il lavoro quindi appare,
sin dalla notte dei tempi, come l’ammenda conseguente a un peccato che ben
presto l’umanità scopre essere non soltanto originale, ma anche piuttosto
piacevole. In un colpo solo dunque, l’uomo scopre la gradevolezza del piacere
indotta dal sesso e la sgradevolezza della fatica che il lavoro comporta.
(Resterebbe da appurare se l’atto che unì i nostri progenitori fu meramente
sessuale; perché se invece fu un atto di amore, apparirebbe allora inspiegabile
una condanna divina così severa per un gesto così divinamente fondamentale per
essere non solo piacevole ma soprattutto necessario per il nobile scopo di
tramandare la specie!).
Sia come sia, è un dato di fatto che,
da allora in poi, l’uomo ha continuato a studiare, ingegnandosi a esplorare
tutte le possibili maniere capaci di aggiungere altre fonti di piacere a quelle
propiziate dal sesso, ma anche altre maniere per ridurre la fatica causata dal
lavoro. Il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo spiega probabilmente la
nascita e la pratica della schiavitù, quel meccanismo perverso e ingiusto che
ha indotto e consentito per secoli a che minoranze bellicose e aggressive
potessero imporsi e sottomettere popolazioni miti e pacifiche. La schiavitù, probabilmente rara tra le popolazioni di
cacciatori-raccoglitori preistorici, appare tra le prime civiltà, come quella
dei Sumeri in Mesopotamia (3.500 a.C.); il babilonese Codice di Hammurabi(1860 a.C.) la descrive e la legittima come un'istituzione consolidata e del tutto comune
tra i popoli dell'antichità. Si stima che nell’Atene ai tempi del suo massimo
splendore (500 a.C.) vivessero circa 30.000 greci che avevano delegato il
lavoro a oltre 300.000 schiavi, raccolti grazie all’economia di guerra allora
in vigore.
*
Questo modello si perpetua poi durante
tutta la lunga decadenza dell’Impero di Roma. Con Diocleziano s’istituzionalizza la servitù della gleba che legava il
contadino a un determinato terreno (la gleba, in latino zolla)collocandolo a metà strada tra lo schiavo e l'uomo libero.L’editto di Costantino (313 d.C.), che sancisce una profonda
rivoluzione sociale - grande merito storico del cristianesimo – non pone però
termine né alla schiavitù alla né alla servitù della gleba. Questa e altre
consimili forme di sudditanza sociale ed economica perdureranno durante tutto
il Medioevo, garantendo una fondamentale fonte di energia lavorativa al
servizio dei ”signori”.
Dopo la scoperta delle Americhe, dal XVI secolo e fino
al XIX, incomincia a prosperare un mercato
criminale, meglio noto
come “tratta degli schiavi”, sorto per soddisfare la
domanda dei committenti delle piantagioni americane di cotone, caffè e altro. In prima fila si trovano,in qualità di finanziatori i mercanti ebrei, veneziani, genovesi, grecio ciprioti
che si avvalgono di naviganti portoghesi,francesi e inglesi per il trasporto della merce umana. Il
lavoro sporco di
razzia all’interno del continente africano e
poi di stoccaggio della “merce” nei centri di raccolta e smistamento è invece affidato alla
solerte complicità di un’operosa
e infida manovalanza, soprattutto araba, assistita da
elementi della peggiore feccia locale. Il
tutto sotto l’autorevole e benedicente avallo della Chiesa
cattolica romana che si fa direttamente carico
della trasformazione della merce in docili-poveri-negri-religiosi-e-ubbidienti,
mediante quel processo di
addomesticamento catechistico che
ne rende
più efficace e sicuro lo sfruttamento.
Questo mercato si è protratto ininterrottamente per centinaia di anni e solamente nel 1750 il Portogallo
abolisce lo schiavismo, limitatamente ai nativi delle proprie colonie. Una
svolta di portata mondiale nel processo di abolizione della schiavitù avviene
in Inghilterra nel 1807, quando il Parlamento approva lo Slave Trade Act,
che innesca un processo che porta all'abolizione della tratta anche da parte
delle altre potenze coloniali. Spagna e Portogallo seguono nel 1817 mentre in
Francia la schiavitù è abolita dalla Convenzione nel 1794; viene poi ripristinata da
Napoleone nel 1802, per essere poi finalmente abolita nel 1848. Nel 1865, con
la fine della Guerra di secessione, gli Stati Uniti d’America decretano
l’abolizione dello schiavismo.
*
Nel frattempo, alla fine del XIX
secolo, ha inizio - in Inghilterra e quindi in Germania, negli USA e in tutto
l’Occidente - la Rivoluzione industriale. Dopo sessantamila anni trascorsi come
raccoglitore-cacciatore e altri diecimila trascorsi facendo l’agricoltore,
l’uomo intravede la possibilità di potersi affrancare dalla condanna biblica,
liberandosi finalmente dal lavoro inteso come dovere e obbligo collettivo,
potendo finalmente intravedere e sperare che il lavoro divenga una libera
scelta individuale. Quella libera scelta che quasi tutte le società hanno talvolta
consentito o almeno tollerato esclusivamente a quegli individui speciali che
sono i giullari e gli artisti.
Sappiamo che, purtroppo, il lavoro
della macchina non ha affrancato l’uomo dal lavoro, limitandosi a trasformarne
esclusivamente le modalità operative. Come abbiamo ricordato, queste
trasformazioni del modo di lavorare sono state indotte e sancite in particolare dalla
prepotente comparsa sulla scena di due nuovi importanti fattori: i “mezzi di
produzione” e il “capitale finanziario”.Protagonisti indiscussi da oltre due
secoli della scena sociale, le cui gesta non esattamente gloriose sono state analizzate
economicamente da Karl Marx e illustrate poeticamente da Charlie Chaplin.
*
Nel
1927, con la pubblicazione di “Essere e tempo”, Martin Heidegger ribalta
il tavolo della metafisica utilizzando il termine ontologia per designare la
scienza del fondamento dell’essere, anzi dell’Esser-ci(in tedescoDasein).Vale forse la pena ricordare che
il termine ontologia designa
la scienza dei caratteri universali dell’ente -di tutto ciò che è - e corrisponde
a quella “prima filosofia” di Aristotele che introduce alla metafisica. Si
tratta di quella maniera di filosofare che pone da un lato il soggetto - l’uomo
- e dall’altro l’oggetto - la verità, la giustizia, il bene, la conoscenza e
altri concetti-oggetti.
Heidegger
contrappone l’essenza del Dasein,
dell’Esserci (figura del presente), a quella dell’essere (infinito) e dell’ente
(participio presente)– una contrapposizione che secondo Parmenide è falsa per
essere inesistente. Una falsa contrapposizione che però ha favorito il trionfo
dell’oggetto (la cosa, le cose) e la sconfitta del soggetto (l’uomo, gli
uomini), decretando quella “cosificazione” che ci ha condotto alla triste
situazione nella quale viviamo.
A mio
avviso, questa sconfitta ha origine, tra l’altro,nella distorta maniera di
valorare e interpretare il termine “lavoro”. Si è definito come lavoro
qualsiasi esplicazione di energia volta a un fine determinato e dalla
Rivoluzione industriale in poi il significato del termine lavoro si è andato trasformando.
Oggi il lavoro è inteso prevalentemente come l’attività umana rivolta alla
produzione di una “cosa”, di un bene, di una ricchezza o comunque
all’ottenimento di un prodotto di utilità individuale o generale il cui valore
è affidato al giudizio sovrano del mercato.
*
Nel 1929, in una nota a piè di pagina del saggio “Il
disagio della civiltà”, Sigmund Freud scrive che “Nessun'altra tecnica di
condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il
concentrarsi sul lavoro, poiché questo lo inserisce sicuramente almeno in una
parte della realtà, nella comunità umana. La possibilità di spostare una forte
quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive e perfino erotiche
sul lavoro professionale e sulle relazioni umane che ne conseguono, conferisce
al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il
mantenimento e la giustificazione dell'esistenza nella società. L'attività professionale
procura una soddisfazione particolare se è un'attività liberamente scelta, cioè
tale da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni
preesistenti, moti pulsionali non intermittenti o invigoriti
costituzionalmente. Eppure, come cammino verso la felicità il lavoro è stimato
poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come alle alter possibilità di
soddisfacimento. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla
necessità, e da questa naturale avversione degli uomini al lavoro scaturiscono
i più difficili problemi sociali.”
*
Nel 2015, Yuval Noah Harari pone
alcune questioni preoccupanti: “Che cosa accadrà al mercato del lavoro quando
l’intelligenza artificiale supererà le prestazioni umane nella maggior parte dei
compiti cognitivi? Quale sarà l’impatto politico di una nuova vasta classe di
persone economicamente inutili? Che cosa accadrà alle relazioni, alle famiglie
e ai fondi pensione quando le nanotecnologie e la medicina rigenerativa
trasformeranno gli ottanta anni nei nuovi cinquanta? Che cosa accadrà alla
società umana quando la biotecnologia ci consentirà di progettare i figli e di
determinare differenze mai sperimentate tra ricchi e poveri?”
E, sibillinamente, si risponde
dicendo: “Quando l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale riveleranno
tutto il loro potenziale, il liberalismo, la democrazia e il libero mercato
potrebbero diventare obsoleti come i coltelli di selce, le musicassette,
l’islam e il comunismo.“
Giovanni
Cutolo
P.S. In ltalia nel 2018 il PIL-Prodotto Interno Lordo
è stato di circa 32.000 Euro in media per ogni abitante e la ricchezza totale
risulta divisa in due metà uguali: una posseduta dal 5% degli abitanti, l’altra
dal restante 95%.
Come spiegazione di questa evidente e clamorosa ingiustizia
Dante Alighieri fornì nel XIV secolo una risposta che rimane, purtroppo, ancora
valida oggi: “Vuolsi così, colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non
dimandare.”
Resta il fatto che,
la scomparsa del lavoro non comporterà necessariamente la contemporanea
scomparsa della possibilità di continuare a esercitare una qualche attività,
come il partecipare al perseguimento di obiettivi non economici, quali pensare,
riflettere, interrogarsi, leggere, studiare, amare e altro ancora. Tutte cose
che, per un lungo tratto della propria vita, rimangono per molti di noi
subordinate, se non addirittura dimenticate, agli impegni economici o di
carriera o a quelli di mera sussistenza.
P.S. In ltalia nel
2018 il PIL-Prodotto Interno Lordo è stato di circa 32.000 Euro in media per
ogni abitante e la ricchezza totale risulta divisa in due metà uguali: una
posseduta dal 5% degli abitanti, l’altra dal restante 95%. Come spiegazione di
questa evidente e clamorosa ingiustizia Dante Alighieri fornì nel XIV secolo
una risposta che rimane, purtroppo, ancora valida oggi: “Vuolsi così, colà dove
si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare.”
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